Nel silenzio e nella distrazione pressoché totali, le università, alla chetichella e in ordine sparso, si stanno dotando di “nuovi codici di comportamento”. Codici che dovrebbero tutelare le università dai comportamenti corruttivi, corrotti e malevoli che, messi in atto dai dipendenti delle stesse, potrebbero danneggiarle. Non si può, quindi, che accogliere con favore il tentativo di estirpare i peggiori mali del paese: corruzione, malaffare, derive baronali, vizi della pubblica amministrazione.
Così, chi conosce bene l’università, si immagina di trovare regole che penalizzino, ad esempio, personale che indirizza studenti verso strutture di formazione private cui è legato da motivi di interesse; personale che, per rapporti non trasparenti col mondo dell’economia, ne favorisce gli interessi a danno del pubblico; personale che, legato a associazioni e gruppi occulti, ne favorisce illecitamente i membri; personale che, con falsità e calunnia, per motivi torbidi, infanghi la propria istituzione; personale che, nei concorsi o nelle attività quotidiane, ostacoli il funzionamento delle università o lo indirizzi verso interessi privati. Certo, questi comportamenti sono già normati dal codice penale, ma, in Italia, un codice in più non guasta mai.
Invece scopriamo che, nei codici, il divieto per i dipendenti di recare danno all’ “immagine dell’ateneo” (concetto già di per sé vago e arbitrario) tende ad essere confuso con il divieto, neppure molto velato, di svelarne le debolezze e i guasti, prefigurando la repressione di commenti, critiche, dubbi e opposizioni, espressi anche in privato o pubblicamente, social network inclusi. Analogamente troviamo l’obbligo di segnalare l’appartenenza ad associazioni ed organizzazioni la cui attività possa interferire con la vita dell’università e nuovamente il pensiero va a quei gruppi, associazioni, movimenti, sensibili in quanto minoranze, che sostengono idee e pratiche altre rispetto a quelle dominanti.
Il fatto che tali norme siano ritenute vincolanti per i tecnici amministrativi e solo di indirizzo generale per docenti e ricercatori non è per noi motivo di consolazione. E constatare che questo è il riflesso di norme che già si stanno diffondendo nel mondo del lavoro aumenta ancora di più le nostre preoccupazioni. Nell’università, nonostante tutti i tentativi di ridurre gli spazi di democrazia, siamo ancora tutti – studenti, tecnici amministrativi, ricercatori e docenti – corpo elettorale e opinione pubblica, soggetti e protagonisti, negli organi di ateneo, di scelte, politiche e strategie.
Ora l’avanzare critiche, il segnalare criticità, il discutere, essere opinione, sostenere ipotesi alternative può diventare “reato”. Il partecipare a un “comune” che sostiene alternative o visioni critiche può diventare un “reato”. Questo in un clima di costante arbitrarietà; un clima in cui l’asticella del lecito può oscillare e slittare nelle derive e nelle vischiosità e che può spingere all’autocensura, al sospetto, all’omologazione, alla paura.
In tal modo per via amministrativa e in modo quasi impalpabile, si vanno a ledere i diritti garantiti dalla costituzione e la natura stessa dell’università. Questa viene immaginata come una macchina burocratizzata, piena di “piani quinquennali”, di criteri assurdi e slegati dalle realtà, di liste di buoni e cattivi e di norme fumose e arbitrarie, ma incisive, di controlli e occhiuti controllori. Una università che, a ragione, è stata definita “orwelliana”. Da un lato frutto di strategie che, utilizzando ogni occasione, mirano a chiudere tutti gli spazi di democrazia e cancellare le opposizioni; dall’altro, cosa ancora più pericolosa, dell’incapacità culturale di avvertire le minacce insite in tali strategie.
Uno stesso ceto che, mentre si affanna a scrivere “codici” che riducono gli spazi democratici, scansa le norme anticorruzione valide per tutte le altre pubbliche amministrazioni, per non dover pubblicare i compensi e le cariche di cui sono titolari presso enti, pubblici o privati, i membri degli organi di governo delle università.
Un ceto dominante che, incapace di riprodurre le basi stesse del suo potere, cerca di nascondere le macerie dell’università sotto il tappeto, vietando agli altri di indicarle. Si tratta di derive cui abbiamo già assistito con le modifiche delle procedure disciplinari, portate all’interno delle università e talvolta usate come clava contro le voci discordanti.
Facciamo sì che le università rimangano lo spazio del libero pensiero, della creazione del sapere, del dubbio, del confronto, della critica, della libertà di espressione. È facile. Scriviamo nei codici etici norme che garantiscano la trasparenza, i diritti costituzionali, il diritto di critica, la libertà di opinione. Riportiamo l’azione disciplinare a Consiglio nazionale dell’Università. Queste sono le migliori medicine contro la corruzione e il malaffare.
Se il re è nudo, facciamo sì che si possa dirlo… per una università pubblica libera, aperta e di qualità.