Roma, 5 luglio 2011

Considerazioni generali: ci sembra utile scoraggiare l’utilizzo di soli indici bibliometrici per preselezionare i candidati all’abilitazione. Innanzitutto l’utilizzo di indicatori statistici applicati ad un singolo ricercatore risentono pesantemente ed inevitabilmente delle fluttuazioni statistiche: inoltre, anche all’interno dello stesso settore scientifico-disciplinare le abitudini di pubblicazione (numero di pubblicazioni/anno, numero medio di firmatari, impact factor delle riviste, numero medio di citazioni) differiscono profondamente a seconda del sottosettore considerato.

L’uso di una soglia tassativa di natura puramente bibliometrica (numero di pubblicazioni, impact factor, h-index, numero medio di citazioni) porterebbe quindi inevitabilmente a penalizzare alcuni sottosettori e a premiarne altri, provocando immediate e potenzialmente distruttive retroazioni sui settori scientifici penalizzati. Ad esempio, influenzerebbe pesantemente le scelte scientifiche del personale universitario, che verrà spinto a scegliere le aree di studio bibliometricamente più favorevoli al fine di garantirsi l’accesso ai fondi di studio e una possibilità di progressione di carriera, con l’effetto deleterio di un sovraffollamento di ricercatori in pochi campi di ricerca e la desertificazione degli altri. Inoltre, richieste di questo tipo disincentivano fortemente l’apertura di nuove linee di ricerca, (la platea di potenziali “citatori” degli articoli è chiaramente più ridotta che per linee di ricerca consolidate), e diminuirebbe quindi la possibilità di realizzare le scoperte più innovative (i “cambi di paradigma” studiati da Thomas Kuhn).

Nel caso la bibliometria volesse nonostante ciò essere utilizzata a sè stante, si auspica che vengano impiegati valori di soglia bassi, utili puramente a distinguere coloro che sono scientificamente inattivi e senza dare luogo a delle graduatorie di “merito” dei candidati.

Mantenere la soglia bassa consente poi una sufficiente discrezionalità nella scelta di chiamata dei dipartimenti, che hanno bisogno di poter selezionare persone con competenze specifiche per inserirle all’interno dei gruppi di ricerca esistenti. Per evitare che questa discrezionalità si traduca in malcostume nepotistico è invece importante implementare una procedura di valutazione ex-post dei dipartimenti, prevedendo altresì che la molteplicità di ambiti scientifici di studio venga premiata rispetto a dipartimenti rigidamente specializzati su microsettori. Dal momento che questa valutazione riguarderebbe un insieme di ricercatori e non un ricercatore singolo, il rischio di errori dovuti alle fluttuazioni statistiche verrebbe di molto ridotto

Ci sembra allo stesso modo molto negativo il documento ANVUR del 22 giugno 2011. In esso pare confondersi la *qualità* scientifica di un candidato con gli indici bibliometrici ad esso relativi, che sono invece un parametro puramente *quantitativo*: l’inaccettabile approssimazione di tale associazione è stata dimostrata al di là di ogni dubbio in molti lavori scientifici (uno per tutti, il report “Citation Statistics” della International Mathematical Union http://www.mathunion.org/fileadmin/IMU/Report/CitationStatistics.pdf e nelle referenze in esso contenute). E’ addirittura l’ANVUR stessa, nello stesso documento, a dirsi “consapevole dei limiti rappresentati dal parametro relativo al numero di pubblicazioni”, citando “gli effetti distorsivi derivanti dall’uso di un indicatore relativo solo alla quantità prodotta e non alla qualità.”

Uno tra i tanti esempi: è noto che applicare una soglia bibliometrica elevata non si traduce in un miglioramento della qualità scientifica quanto in un aumento artificioso del numero di pubblicazioni, la cui stesura riduce peraltro il tempo disponibile per la ricerca vera e propria.

In questo contesto, l’indicazione dell’ANVUR (“alzare la qualità scientifica” utilizzando come soglia per l’abilitazione della mediana di indici bibliometrici dei componenti del ruolo al quale ci si candida) non prende in sufficiente considerazione gli retroazioni distorsive indotte dall’introduzione un simili criterio. La qualità dei ricercatori italiani è testimoniata dal fatto che, nonostante l’insufficienza di fondi, l’Italia è complessivamente settima per produttività scientifica. In queste condizioni, la qualità della ricerca scientifica può essere elevata soltanto mettendo a disposizione dei ricercatori, in misura analoga agli altri paesi, strutture e fondi per la ricerca, oltre che garantendo l’indispensabile supporto di personale tecnico-amministrativo. Criteri come quello proposto dall’ANVUR si tradurrebbero semplicemente in un incremento del numero di pubblicazioni e in una riduzione del numero di docenti dovuto alla crescente difficoltà di accesso in ruolo, numero già ampiamente al di sotto della media OCSE.

Ritornando al decreto sulle abilitazioni: appare molto criticabile (anche se purtroppo previsto dalla legge 240/10) il divieto di ripresentarsi nel biennio successivo dopo un tentativo fallito. Nel mondo scientifico un anno è sufficiente a pubblicare risultati nuovi o a vedere valorizzati lavori precedenti, che consentirebbero al candidato di superare la prova. Un’attesa di tre anni appare quindi iniqua e di certo non incentiva il candidato ad operare prontamente per recuperare lo svantaggio.

Riguardo ai criteri fissati dal ministero per il conseguimento dell’abilitazione, rileviamo come questo preveda di richiedere il parere della comunità universitaria solo dopo cinque anni di applicazione. Appare invece opportuno che il parere del CUN venga dato *prima* dell’applicazione dei criteri, e non solo dopo cinque anni, Inoltre, appare contraddittorio che l’ente che deve occuparsi della valutazione ex-post (l’ANVUR) partecipi anche alla definizione dei criteri ex-ante, creando un cortocircuito potenzialmente molto dannoso.

Per quanto riguarda l’organo che dovrà valutare se gli autocandidati commissari possano davvero essere inseriti in commissione, suggeriamo che la scelta migliore possibile (anche suggerita dal parere del Consiglio di Stato) appare quella del CUN, che raccoglie tutte le aree e per la sua natura elettiva è l’organo più rappresentativo della comunità scientifica universitaria nazionale.

Per quanto riguarda i limiti temporali per le scadenze amministrative delle procedure, riteniamo opportuno individuare termini congrui ma stringenti, e prevedere provvedimenti e/o sanzioni amministrative nel caso si verifichino ritardi a causa di inadempienze da parte del ministero o di altri soggetti responsabili delle procedure.

Notiamo inoltre che la possibilità di fissare a dodici il numero massimo pubblicazioni che la commissione può accettare appare per moltissimi settori gravemente limitativo: non consente ai candidati di presentare adeguatamente la propria produzione scientifica e rischia di appiattire artificialmente i curriculum dei candidati.

Ribadiamo il nostro rifiuto di qualsivoglia quota riservata di abilitazioni per qualsivoglia figura professionale, e riteniamo opportuno che tale divieto venga inserito esplicitamente nel decreto.

Infine, riteniamo che sia opportuno mantenere a tutti i livelli il fuoco della valutazione puntato sull’attività scientifica. Le proposte fatte da alcuni di prendere in considerazione l’attività didattica avrebbero dei gravi effetti sul lavoro di ricerca. Già adesso molti ricercatori universitari investono gran parte del loro tempo per sostenere l’offerta formativa degli atenei italiani a fronte dei continui tagli di personale e di risorse. Se l’attività didattica venisse considerata ai fini del passaggio di carriera dei ricercatori costituirebbe un ulteriore incentivo a trascurare l’attività di ricerca scientifica, mettendo a rischio l’indissolubile connubio tra didattica e ricerca che differenzia l’Università dai gradi inferiori dell’istruzione e dai corsi di formazione professionale avanzata, con grave impoverimento del livello di preparazione culturale dell’intera nazione.

Alessandro Ferretti

Francesca Coin

per la Rete 29 Aprile