Il Ddl sull’Università, la fretta delle toghe rettorali, gli appetiti della Confindustria
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Da quando è stato deciso lo spostamento al 14 ottobre della discussione alla Camera sul DdL sull’Università, una strana febbre sembra essersi impadronita dei rettori, del ministro e della Confindustria, quasi una fregola di approvazione.
Bisogna votare subito, si dice, per evitare l’affossamento della riforma. Votare purchessia, stanti i pesanti limiti della riforma che in molti, anche tra i Rettori e nella maggioranza, cominciano a intravedere.
Una presa di coscienza che è cominciata quando i ricercatori (non fannulloni, semmai fantuttoni) hanno indicato precisamente i punti critici di una riforma che:
– consegna il controllo delle università in mano a pochi professori e rettori – spesso gli stessi che hanno condotto coscientemente il sistema alla sua attuale condizione – finalmente arbitri indiscussi non solo dei concorsi (come già adesso), ma anche della gestione verticistica degli atenei all’interno di Consigli di amministrazione designati dall’alto;
– non premia veramente il merito ma lo precarizza ulteriormente, senza prevedere un contratto unico pre-ruolo che conduca al ruolo di professore (tenure-track), con accantonamento obbligatorio delle risorse per l’assunzione dei giovani aspiranti dopo un periodo di prova e di verifica delle capacità didattiche e di ricerca; in realtà la tenure-track nostrana si risolverà in 6/8 anni di precariato istituzionalizzato senza sbocchi certi, anche per coloro che avranno già dimostrato il loro valore;
– perpetua il sistema barocco delle fasce di docenza con compiti funzionali teoricamente differenziati (ma in realtà spesso totalmente sovrapponibili), mentre nulla dice sulla razionalizzazione della docenza con un ruolo unico che metterebbe fine alla vergogna di un sistema che, sino a oggi, è cresciuto indifferente sul lavoro gratuito di 24.000 ricercatori strutturati e di 60.000 ricercatori precari impiegati a tempo pieno per compiti didattici non dovuti.
– fa un omaggio puramente verbale al diritto allo studio, pensando di cavarsela con i soli slogan, senza prevedere percorsi chiari e, soprattutto, dotati di risorse finanziarie per garantire lo studio dei “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi” (art. 34 Cost.). In compenso prevede la diversione delle già misere risorse pubbliche verso gli atenei privati, attraverso interventi economici per “[…]iscriversi alle libere università dello Stato”, come recita ora l’art. 1 del ddl. Per chi non lo sapesse le “libere università” sono quelle private riconosciute dallo Stato, qualcosa di diverso rispetto alle università “pubbliche”.
Di fronte al coro di allarmati richiami alla fretta e alla conclusione dell’iter legislativo – svoltosi senza un vero confronto con tutte le componenti che lavorano all’interno dell’Università – viene da domandarsi perché la riforma dovrebbe essere varata a ottobre e non a febbraio o marzo dal momento che, in ogni caso, non può valere per l’anno accademico in corso, che è già partito. È forse necessario fare in fretta per evitare una più attenta analisi del provvedimento da parte dell’opinione pubblica, cercando di intraprendere l’ennesima privatizzazione a favore di pochi e i costi scaricati sulla collettività?
Oggi, dopo mesi durante i quali è stato ripetuto ossessivamente il mantra del “i soldi non ci sono, dateci i soldi”, la priorità sembra essere diventata “la riforma non c’è più, dateci la riforma”, cercando di strizzare l’occhio ai ricercatori con la promessa di 9.000-10.000 posti di professore associato per quella quota di ricercatori che “se lo meritano”, aggiungendo che, senza il DdL, i concorsi sono bloccati. Si tratta di una falsità bella e buona: i concorsi possono essere varati anche con le norme esistenti e il loro svolgimento non è legato a filo doppio alla riforma. Tuttavia, a costo di diventare noiosi, ripetiamo che la prospettiva di un avanzamento di carriera, legittima, comprensibile e presente nei desideri professionali di tanti ricercatori, non è stata la molla principale che ha mosso il movimento della Rete29Aprile, bensì è stata la coscienza di una deriva aziendalistica e dirigista intollerabile per il futuro della ricerca e dell’alta formazione.
La stessa passione che il quotidiano della Confindustria, “Il Sole 24Ore”, mette nello spronare il governo e appoggiare i rettori e il loro organo, la Conferenza dei Rettori delle università italiane, dovrebbe far capire quanto il mondo imprenditoriale tiene a questa riforma. Lo fa perché ha immobilizzato ingenti capitali nelle università? No di certo: forse in quelle private (dalle quali, per inciso, provengono tutti gli austeri editorialisti che strascrivono e straparlano di università) non certo in quelle pubbliche. E allora sarebbe il caso di chiarire perché gli ambienti industriali si mostrano così affezionati a questa riforma, al di là delle banalità retoriche sul collegamento tra aziende e ricerca. C’è un modo affinché le aziende appoggino la ricerca: la finanzino esternamente, lasciando che essa si organizzi autonomamente, e non cerchino di entrare nei Consigli di amministrazione degli atenei per controllarli. Occorre ricordare che la ricerca pubblica è rivolta all’interesse generale; la ricerca privata ha altre strade per concretizzarsi, e tali strade non prevedono l’uso di risorse pubbliche per privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
La pausa di riflessione che parte della maggioranza e l’opposizione hanno imposto ai lavori parlamentari, ci pare quindi un’occasione per modificare profondamente il DdL e renderlo più conforme agli obiettivi di una università europea, pubblica, libera e aperta. Le idee ci sono, i progetti sono ormai evidenti, la contrapposizione tra una visione ottocentesca della gestione del sapere e una visione moderna, condivisa e agile è chiara.
Si tratta di decidere in quale direzione si intende muovere.