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Gentile dott. Iacona, 

Siamo una associazione di ricercatrici e ricercatori nata dalla protesta contro la riforma “Gelmini” che dal 2010 si batte contro le disfunzioni e gli abusi negli atenei, questioni che non nascono certo dalla riforma ma che sono stati acuiti da questa, come ampiamente previsto da noi e da tutti gli osservatori imparziali del tempo (QUI un video del 2010; grazie a Francesco Sylos Labini che venne a supportarci nella nostra lotta e “interpretò” la comunicazione video). La ringraziamo molto per la ampia ed articolata trasmissione dedicata al mondo dell’università e della ricerca (QUI); le scriviamo quindi per fare alcune considerazioni sulla sua trasmissione riguardo ad alcuni aspetti che, a nostro avviso, sono stati distorti o ignorati, sperando di contribuire ad una migliore analisi della situazione accademica nel nostro paese, tema che merita di essere affrontato con continuità per l’aspetto strategico che esso rappresenta.

Concorsi e Ruolo Unico della Docenza (o la democrazia contro la baronia)

Lo scandalo dei concorsi ad personam è una grave e continua offesa all’istituzione in generale e alle vite professionali (e non) di chi subisce ingiustamente abusi e punizioni svolgendo il proprio dovere. Dalla diffusione territoriale e continuità temporale è evidente che si tratti di un fenomeno sistemico che è facilmente spiegato dalla struttura degli incentivi costituita dalle norme in vigore come accennato, seppur brevemente, anche durante la sua trasmissione.

Per spiegare la frequenza dei concorsi tecnicamente truccati (da intendersi sia come concorsi con pochissimi candidati che quelli dove il/la vincitore/vincitrice è chiaramente meno qualificato di altri candidati) è necessario considerare in primo luogo il denominatore della percentuale, cioè il numero assoluto dei concorsi che si svolgono in Italia per le carriere universitarie. Con le norme attuali, la vita professionale di un professore ordinario, dopo aver concluso il dottorato di ricerca (al quale si accede per concorso competitivo), è scandita dai seguenti passaggi: 1) concorsi (tanti) per contratti di ricerca e didattica precari; 2) concorso per ricercatore  triennale senza stabilizzazione finale (in gergo ministeriale “RTDa”); 3) concorso per ricercatore triennale con passaggio finale (eventuale, ma quasi certo) a professore associato (“RTDb”); 4) concorso per “ordinario”. Tutti questi concorsi producono come risultato la stessa identica figura professionale: che si sia professore ordinario o ricercatore precario si fanno lezioni, si pubblicano articoli, si fanno esperimenti, ecc. Anche se si svolgono esattamente le stesse identiche mansioni ogni passaggio di carriera è configurato dalla normativa come una tipologia lavorativa completamente nuova che implica, per fare un esempio, il licenziamento dalla posizione precedente e la assunzione nella nuova, addirittura azzerando la anzianità ai fini pensionistici ad ogni passaggio e senza la possibilità di “ricostruire la carriera”.

La differenziazione artificiale in ruoli formalmente distinti di professionisti che svolgono, in realtà, il medesimo lavoro crea dal nulla un enorme potere di interdizione da parte di chi occupa posizioni di vertice. Almeno il passaggio da ricercatore a tempo indeterminato a professore associato e quello da professore associato a professore ordinario non dovrebbero essere gestiti come un cambio di lavoro, cui accedere mediante concorsi, ma dovrebbero essere trattati come la naturale progressione di una unica carriera da gestire mediante valutazioni regolari del lavoro svolto. In questo modo si avrebbero due effetti ampiamente positivi. In primo luogo, si ridurrebbe drasticamente il numero di concorsi, limitati alla scelta dei giovani ricercatori in ingresso, riducendo quindi la possibilità di compiere abusi. In secondo luogo, gli ordinari non avrebbero il potere per minacciare il blocco della carriera dei colleghi più giovani, e verrebbe a mancare lo strumento stesso con cui si esercitano gli abusi di potere.

A questo punto, dato questo scenario, viene naturale chiedersi perché vi sia questa abbondanza di concorsi per scandire la progressione di carriera di una persona che fa sempre, sostanzialmente, lo stesso lavoro. Tale moltiplicazione esiste perché è stata erroneamente utilizzata per sostituire un’altra funzione, cioè quella della valutazione dei docenti universitari. Le due attività, concorso e valutazione, hanno scopi (e quindi procedure) che dovrebbero essere nettamente differenziate. In primo luogo, il concorso è orientato, giustamente, a identificare il miglior candidato disponibile. All’opposto, la valutazione dei docenti in ruolo non deve essere competitiva perché non ha senso porsi la domanda se sia più bravo un fisico teorico oppure un fisico sperimentale, ma deve limitarsi a verificare che il docente svolga tutti i suoi compiti. Basterebbe quindi trasformare i passaggi di carriera in un sistema valutativo regolare e puntuale per ridurre drasticamente le opportunità e gli incentivi agli abusi.

Valutazione: finanziamenti e pubblicazioni (ovvero: competizione o collaborazione?)

Data la centralità che riteniamo dovrebbe essere accordata alla valutazione dei ricercatori in sostituzione dello strumento improprio dei concorsi, vorremmo indicare un altro punto che la sua trasmissione ha trattato con una certa leggerezza. La ricerca scientifica, per definizione, consiste nel creare nuova conoscenza la cui rilevanza non è mai paragonabile se non in modo molto approssimativo e le cui implicazioni future sono altamente incerte. Di conseguenza, cosa sia veramente rilevante è difficile da accertare se non con tempi molto lunghi, inutili dal punto di vista operativo. Per ovviare a questo problema sono stati introdotti indicatori di qualità che cercano di approssimare la reale qualità della ricerca, e sono basati sui dati disponibili sui finanziamenti competitivi acquisiti per progetti di ricerca e sulle pubblicazioni prodotte da un ricercatore o un gruppo di ricerca. 

Anche se è un criterio apparentemente ragionevole, affidare la valutazione esclusivamente a criteri quantitativi porta a enormi rischi. Ad esempio, come ha evidenziato il collega Baccini di Siena, è possibile far crescere gli indicatori bibliometrici, con la droga dell’autocitazione, senza una corrispondente modifica sostanziale della ricerca sottostante. Inoltre – e questo è molto più grave –  il loro utilizzo spinge i ricercatori, in particolare quelli giovani, a perseguire linee di ricerca caratterizzate dal basso rischio di insuccesso, evitando di avventurarsi in ipotesi di ricerca dal potenziale radicalmente innovativo. Infine, inseguendo pubblicazioni su riviste affermate (per definizione in campi di ricerca consolidati) e finanziamenti (indirizzati su obiettivi popolari ma non necessariamente scientificamente interessanti) si riduce drasticamente la possibilità di far avanzare la frontiera della ricerca su campi realmente rilevanti che la leadership scientifica o il potere politico ignorano o, addirittura, osteggiano. Un esempio abbastanza intuitivo può essere quello della ricerca nel campo delle malattie rare o rarissime. Sono poche le persone che ci lavorano, poche le citazioni e di conseguenza bassi gli indici per le pubblicazioni relative, cosa che implica una limitata prospettiva di carriera e un forte disincentivo a proseguire le ricerche in quegli ambiti a prescindere dalla qualità del lavoro svolto. Una conseguenza che forse non salta agli occhi è che – se si adottano le metriche come riferimento assoluto ed oggettivo, giudice e “metronomo” delle carriere – chi fa ricerca dovrà rinunciare ai campi più innovativi ma che offrono meno prospettive di carriera, con una forzatura che di fatto limita sia la prescrizione costituzionale di libertà di ricerca sia l’innovazione, portando uno svantaggio complessivo per la collettività.

Anche se ovviamente non è possibile affrontare la questione in una trasmissione orientata al grande pubblico, vorremmo sottolineare che Il dibattito sulla valutazione della ricerca è molto ampio e controverso, e quindi è troppo semplicistico suggerire che un ricercatore è bravo perché pubblica tanti articoli e vince tanti finanziamenti. Questo approccio è stato adottato, sia all’estero sia in Italia, come strumento per isolare i ricercatori, mettendoli in competizione uno contro l’altro con conseguenze spesso catastrofiche. In realtà la ricerca è soprattutto frutto di collaborazione (sia inter-generazionale che intra-generazionale), ma questo aspetto è sistematicamente sottovalutato sotto la spinta e l’interesse di potentati accademici inutili quanto dannosi.

Ricambio docenti (la mobilità ha dei costi: chi li paga?)

Su un altro punto la sua trasmissione ha correttamente evidenziato un problema ma, riteniamo, ha omesso di indicare la principale motivazione. È vero che gli atenei italiani hanno una proporzione eccessiva di “interni”, docenti che svolgono l’intera carriera nello stesso ateneo con un bassissimo tasso di ricambio di professori tra atenei nazionali ed internazionali (l’esempio viene dalla stessa ministra Messa, nata – fonte CINECA – come ricercatrice all’interno dell’Università di Milano Bicocca e cresciuta nei diversi gradi professionali sempre nella stessa università, fino a diventarne rettrice). Vi sono diversi motivi per questa situazione, in primo luogo quello (citato brevemente nella trasmissione) che un concorso vinto da un interno produce un costo finanziario pari alla sola differenza di stipendio, mentre la vittoria di un esterno comporta un aumento di spesa pari all’intero costo del nuovo assunto. La carenza di finanziamenti degli ultimi decenni, una tendenza invertita solo recentemente e solo parzialmente, ha reso particolarmente sensibile l’aspetto monetario, tanto che il numero assoluto di docenti di ruolo si è ridotto di più del 20% dall’approvazione della riforma, caso unico in tutto il mondo. In queste condizioni assumere docenti esterni è stato ovviamente un lusso che solo pochissimi atenei potevano permettersi, e comunque sempre molto raramente. Il risultato, ovviamente, è una eccessiva “omofilia” dei profili dei docenti negli atenei. Per assurdo, accanto all’inutile (e dannoso) proliferare dei concorsi richiesti per una normale progressione di carriera le norme attuali scoraggiano fortemente gli unici concorsi che avrebbero senso, quelli per lo spostamento “orizzontale” dei professori, il cui numero è infatti estremamente basso. 

Precariato (davvero si può continuare a far finta di non vedere o sapere?)

Durante la sua trasmissione è stato totalmente ignorato un punto davvero cruciale della attuale situazione accademica italiana: l’enorme ricorso al precariato frutto di norme assurde introdotte dalla riforma del 2010 e dal seguente sotto-finanziamento della ricerca. Un enorme numero di giovani (e non più tanto giovani) colleghi è costretto a lavorare con redditi ridicolmente bassi e vivere con un’incertezza del futuro che se è non solo accettabile, ma anche auspicabile per un ventenne, diventa deleteria e profondamente destabilizzante per chi supera, e di molto, i trent’anni e ha anche minime ambizioni di crearsi una vita familiare e un futuro. In questo periodo un esercito di precari garantisce la funzionalità dei laboratori e la didattica senza che l’enorme fatica (e costo) della loro formazione abbia possibilità di essere applicato e messo a frutto in seguito.

Diritto allo Studio (solo per la “classe dirigente”?)

Per comprensibili motivi di tempo la sua trasmissione non si è occupata esplicitamente degli studenti universitari, anche se lo ha fatto indirettamente e, speriamo involontariamente, in modo profondamente sbagliato. L’Italia ha il più basso numero di laureati tra i paesi avanzati e continua a laureare la metà dei giovani rispetto ai paesi più avanzati. I motivi sono tanti, ma è utile citarne almeno due. Le tasse universitarie italiane sono estremamente alte, seconde in Europa e inferiori solo a quelle del Regno Unito. Tasse molto onerose anche per famiglie di reddito medio, con pochi sussidi e infrastrutture anche per chi proviene da famiglie povere o è fuori sede. Il sistema di accesso, inoltre, tra numero chiuso (o, come si usa dire, “programmato”) e test obbligatori è congegnato per respingere gli studenti che non abbiamo ricevuto nelle scuole un’ottima formazione (tralasciamo qui lo spinoso tema dei numeri chiusi nell’area medica, e la scarsità di persone specializzate che con il COVID è emersa chiaramente; per il futuro prossimo c’è poi un’altra emergenza facilmente prevedibile, ovvero l’invecchiamento della popolazione), e anche in questo caso essere in grado di immatricolarsi è vissuta spesso come una concessione e non un diritto.

Il risultato, come lei ha detto e ripetuto in trasmissione, è che l’università è vista troppo spesso come un luogo adatto a formare la “classe dirigente”, implicando che… la “classe diretta” (se così si vuol dire…) non avrebbe motivo di frequentarla. Questa concezione elitaria, che speriamo sia solo un malinteso dovuto ai tempi televisivi e allo script, è effettivamente quella applicata in Italia ed è completamente errata e finanche anticostituzionale, fondata su un concetto di società e di economia dove il “lavoro di concetto” e il “lavoro manuale” sono nettamente distinti. La propaganda contro la formazione universitaria (vista come un parcheggio o uno spreco di tempo, per chi è apparentemente destinato/a a lavori umili) e a favore di lavoratrici e lavoratori a bassa specializzazione ed alta disponibilità è, negli ultimi decenni, sotto gli occhi di tutti (ad esempio QUI e QUI). Nelle società moderne la necessità di lavoro manuale è estremamente ridotta e la rapida evoluzione del contesto tecnologico non permette di dare alcuna garanzia lavorativa anche a chi riceve la migliore formazione. Al contrario, una formazione superiore è necessaria a tutti i cittadini, indipendentemente dalla collocazione sociale o lavorativa perché qualsiasi persona per svolgere anche la più banale delle attività deve confrontarsi con strumenti in continua evoluzione. Economicamente, inoltre, la capacità di comprensione, adattamento e creatività che la formazione universitaria fornisce indipendentemente dalla specializzazione sono strumenti essenziali per qualsiasi tipo di occupazione professionale. Se l’obiettivo di una società è formare nuove generazioni in grado di capire e influenzare il contesto storico in cui vivranno è necessario che la frequenza di un qualsiasi corso di studio universitario diventi la norma. Se, al contrario, l’istruzione superiore rimanesse limitata ad una ristretta élite nulla potrebbe impedire il dilagare di populismi rendendo la popolazione facile preda di ideologie manipolatorie.

Conclusione

La ringraziamo per l’ampio spazio dedicato alle istituzioni dove viviamo e lavoriamo e auspichiamo che l’interesse suscitato dal suo lavoro possa spingere a una maggiore attenzione verso le attività di formazione superiore e ricerca, le uniche in grado di garantire la sostenibilità economica e la stabilità sociale del Paese nel tempo. Il sistema universitario nazionale funziona, nel senso di produrre ricerca di altissimo livello e formando giovani che facilmente trovano lavoro ovunque. Ma la sua esistenza è messa in serio pericolo da molti problemi e la sua trasmissione ha contribuito a indicarne correttamente diversi. Altri non sono però emersi, ed alcune soluzioni proposte, a nostro avviso, peggiorerebbero ulteriormente la situazione. Da ormai molti, troppi anni, le responsabilità di governo sono affidate ad ex rettori (o rettrici) che continuano a ispirarsi agli stessi distruttivi concetti ultraliberisti e ultra-competitivi, che rimbalzano nell’ambito di una categoria chiusa che poteva avere senso nell’organizzazione degli atenei degli anni Settanta del Novecento, ma non certo oggi, quando ogni funzione di ricerca e didattica nelle università è attribuita indifferentemente a chi inizia o a chi finisce la carriera della ricerca. Posizioni di potere che, ovviamente, si guardano bene dal menzionare il Ruolo unico della docenza come possibile soluzione a molti dei problemi che nella sua trasmissione sono emersi. Eppure basterebbe rispondere a una semplice domanda: cosa giustifica, nel 2022, l’esistenza di “piramidi di potere” – quelle attorno alle quali si snodano tutte le distorsioni che lei ha mostrato – che sterilizzano ogni forza innovativa che può provenire da giovani ricercatrici e ricercatori? Perché è più facile che il Paese abbia un premier trentenne che un Rettore (o rettrice) di quell’età? Perché, con la peer review, una persona giovane di qualsiasi fascia accademica, strutturata o non strutturata, può essere chiamata a valutare un articolo scientifico di qualsiasi altra, e allo stesso tempo tutte le decisioni chiave sono riservate a coloro che sono nella “prima fascia”? Speriamo che con queste note di averLe fornito, a Lei e ai suoi collaboratori, un quadro più completo della situazione che preluda a ulteriori approfondimenti e indagini; siamo pienamente a disposizione per approfondire il tema nella sua complessità o per discuterne con chi propone riforme da decidere in tavoli con “politica, magistratura, governo, università stessa, una rappresentanza di cittadini”.

Ci creda sinceramente suoi,

 

La Rete 29 Aprile – Ricercatori per un’Università pubblica, libera e aperta