Presentiamo un’intervista a Massimiliano Tabusi, recentemente nominato come delegato alla democrazia accademica presso l’Università per Stranieri di Siena. Cristina Barbieri discute con lui sul significato e le implicazioni di questo ruolo.
D: Una delega alla democrazia è un unicum nel panorama accademico. Come fai ad essere sicuro che il tuo ruolo esprima una linea politica rettorale e non abbia una funzione retorica?
Sono consapevole che si tratti di un unicum (QUI), ma spero che anche in altri Atenei si possa ritenere il tema così interessante da meritare una delega rettorale. Quanto alla linea politica, quella del rettore è esplicita. Tomaso Montanari ha scritto nel suo programma di candidatura:
“[…] E mi impegno ad agire, nella sostanza, come se il ruolo unico della docenza (questo elementare fondamento di democrazia ed eguaglianza, che tanto tarda ad arrivare) esistesse già: restringendo al minimo possibile i privilegi castali, e allargando al massimo il peso della comunità accademica di pari (ecco uno dei primi punti di competenza della nuova delega alla democrazia universitaria).” (QUI, p. 4).
Ruolo unico e democrazia convergono, come sa chi segue il dibattito aperto da R29A. E si saldano entrambi con la prevalenza del principio di collaborazione su quello di competizione. Quanto al rischio che si tratti “solo” di “retorica”, rispondo enfatizzando la “funzione retorica” (“tecnica del discorso teso a persuadere”, secondo una delle definizioni Treccani). Se l’esistenza del mio ruolo assolvesse ad una funzione persuasiva, sarebbe tutt’altro che disprezzabile per me. Anzi, è questo il ruolo che mi attribuisco: persuadere al valore e utilità della democrazia accademica. Al momento – conto di tornarci – non è affatto scontato.
D: Valorizzare la democrazia accademica significa valorizzare il principio dell’autogoverno e tendere verso la redistribuzione del potere decisionale. Si tratta di fini in controtendenza sia rispetto al passato (che li scriveva solo sulla carta) ma anche rispetto ai processi di verticizzazione e managerializzazione attuali. Sei consapevole di avere una mansione lontana dalla prassi degli atenei e dalle riforme accademiche?
Certamente! La R29A ha analizzato sia in itinere (2010) che successivamente la spinta verso “l’uomo solo” al comando, il “rettore manager” che avrebbe dovuto “far funzionare” gli atenei così bene come le aziende italiane (!). Quelle norme sono ancora lì, e la tendenza è alla verticalizzazione continua. E’ sorprendente, almeno per me, lo zelo con cui viene accettato anche lo spirito oltre che la lettera di quelle norme da molti colleghi. Credo che la ragione non sia la convinzione nell’efficacia del modello, ma la complessità quotidiana. Credo si pensi più o meno così: “i processi sono sempre più tecnici e burocratizzati. A chi si fa carico di questo fardello, deleghiamo ogni potere di decidere in vece nostra”. Così stando le cose, può diventare molto rarefatta anche la volontà di partecipare al governo degli Atenei.
D: Cita tre iniziative di democrazia che hai messo in atto di cui sei particolarmente fiero.
Metterei da parte il concetto di “fierezza”; una certa soddisfazione per l’avvio di percorsi, semmai, non è comunque mia personale ma di tutta la comunità di Ateneo. Ciò detto, mi sembra interessante la partecipazione di tutt* a tutti i Consigli, anche ai “ristretti” (come uditori quando le norme impediscono una partecipazione più attiva). E’ stata la mia prima richiesta e il rettore (Montanari) e il direttore del dipartimento (Marrani) l’hanno fatta propria mentre… finivo la frase. La seconda è un sistema di informazione orizzontale e capillare che arriva ogni lunedì sulla casella postale di ogni componente della comunità dell’Ateneo (QUI il sito che ho creato a questo proposito, e QUI uno dei notiziari settimanali, quello del 6/6/2022). Letteralmente chiunque nell’Ateneo può effettuare segnalazioni, che arrivano a tutt*. Allo stesso modo, tutt* le/i docenti inseriscono personalmente eventi o riferimenti nel calendario comune (QUI). La terza è un test di “discussione asincrona” (come se fosse lo spazio fisico di una macchinetta del caffè o di un corridoio permanentemente aperto allo scambio di idee) sul tema, fondamentale, del ritorno totalmente in presenza nell’A.A. 2022-2023 (QUI). Come realizzarlo? e perché, visto che l’online sarebbe comodo sotto molti aspetti? Gli interventi sembreranno pochi, ma si pensi che l’Ateneo ha, in totale, un’ottantina di strutturat* (se non erro; più lettrici e lettori, che svolgono ugualmente un ruolo importante nella didattica). Anche in questo caso chiunque – non solo i/le docenti – può intervenire.
D: Le dimensioni ridotte di un ateneo rendono più percorribile un processo di democratizzazione? Trovi che i colleghi siano interessati ad accrescere il loro status attraverso una redistribuzione del potere che tenda verso una maggiore uguaglianza? Oppure prevale l’idea che una crescita del proprio status significhi avere più potere sopra gli altri?
Penso di sì, lo facilitano. Onestamente la dimensione del potere si coglie relativamente, in un Ateneo con pochi docenti (ma, in proporzione, con un gran numero di student* per docente) e nel quale, a mia memoria, anche nel passato la conflittualità con chi gestiva la governance ai diversi livelli è stata tradizionalmente piuttosto limitata. L’attuale “governance plurale” dell’Ateneo vede la partecipazione, con deleghe, di molte colleghe e colleghi (tra prorettrici/ori e delegat*, conto circa trenta persone di tutti i livelli, da RTD a Ordinarie/i; QUI). Naturalmente il potere esiste, ma mi sembra prevalga una dimensione operativa. Una governance estesa che abbraccia una larga parte della comunità e una partecipazione reale allargata si può però realizzare in ogni dipartimento, anche in atenei, anche di grandi proporzioni; allo stesso modo alcuni principi di partecipazione alla discussione e di informazione orizzontale e diffusa si possono realizzare ovunque, anche sfruttando le nuove potenzialità della tecnologia.
D: Cita un paio di difficoltà che hai incontrato di cui sei stato particolarmente stupito.
Facile e discretamente rapido. Uno: far convivere il nostro vero lavoro (formazione, ricerca, terza missione) con l’impegno “gestionale” (risorsa tempo!); due: quando c’è fiducia diffusa in una governance, la pulsione all’innovazione dei processi non è molto marcata; ogni cambiamento, seppur minimo, interviene su un assetto che nel tempo si era creato (prassi, aspettative, formalisi, procedure…) e, dunque, non è facile da realizzare. Diciamo che per modificare qualcosa è necessario che il cambiamento comporti un vantaggio molto forte e facilmente percepibile, altrimenti finisce per prevalere la percezione della “scomodità” di prassi nuove, per quanto potenzialmente migliori.
D: Occupandoti praticamente del problema che idea ti sei fatto su che cosa osteggi una cultura più democratica in un contesto con un alto livello di istruzione e abitudine all’argomentazione?
Darò una risposta che forse apparirà sibillina. Ciò che più osteggia una “cultura più democratica” mi sembra essere la percezione ormai ventennale di trovarsi in una situazione di “normale stato d’eccezione”, a causa del quale nulla è mai certo: i finanziamenti minimi per far funzionare un ateneo che, in controtendenza, è molto cresciuto negli ultimi anni; i continui cambi di norme; le richieste burocratiche più bislacche, ma sempre obbligatorie ed esiziali; il reclutamento che avviene sempre o quasi per piani straordinari; una situazione del diritto allo studio ben lontana da altri paesi europei; la feroce spinta di sistema verso un ampliamento del precariato, a causa della quale ciascun* sente su di sé una percezione di corresponsabilità… questi ed altri elementi portano a mirare ogni settimana al raggiungimento di quella successiva. Qualcuno dei lettori e delle lettrici ha mai avuto la sensazione, provando ad aprire una discussione in un contesto istituzionale su un tema che riteneva importante, di far “perdere tempo”, considerate le mille emergenze? Ecco…
D: Sul piano nazionale si può fare qualcosa per una maggiore attenzione verso la democrazia accademica?
Io credo proprio di sì. Come dicevo, una delega rettorale è a mio avviso molto importante, anche per la sua dimensione simbolica. Ma da sola serve a poco: c’è un ampio margine di partecipazione di tutte e tutti coloro che sono nel sistema, a prescindere da fascia o ruolo. Impegnarsi in prima persona, cercare di conoscere ciò che avviene altrove, scambiarsi notizie e buone pratiche è alla base della costruzione di una migliore democrazia accademica. Per parte mia l’attenzione a “fare rete” è massima, e credo che la Rete29Aprile (così come altri contesti partecipativi) sia preziosa anche per questo. Nella mia delega leggo anche che mi si chiede di considerare “[…] l’interpretazione del ruolo della Stranieri nella costruzione di una democrazia accademica nell’intero sistema universitario italiano”. Ritengo quindi uno dei miei compiti quello di rapportarmi con chiunque fosse interessat* a condividere informazioni, proposte e prassi, provando a riverberare questa condivisione su scala (deformazione professionale da geografo…) almeno nazionale.