Da qualche tempo circola nel mondo politico italiano – che certo non brilla per il livello di qualità intellettuale – un mantra dal sapore magico: “aboliamo il valore legale del titolo di studio – si dice – e la qualità del sistema universitario aumenterà immediatamente, mettendo “fuori mercato” le università meno valide».
Si tratta di un pericoloso andazzo che accomuna esponenti sia di destra (Gelmini, Lupi) sia di sinistra (Letta, Renzi, Ichino) e si fonda evidentemente su una scarsa informazione complessiva e su qualche pregiudizio falsamente “liberista” ( come del resto già da noi ampiamente argomentato durante le audizioni svoltesi sul tema al Senato e alla Camera).
Il valore legale del titolo di studio non è altro che il modo con cui, storicamente, lo stato moderno accredita i titolari di un determinato diploma, certificando che possono svolgere una tale professione (non senza aver superato, in ogni caso, un esame di stato). Contemporaneamente lo stato si difende in questa maniera da chi potrebbe cercare di accreditarsi come agenzia formativa di valore, mentre invece rilascia diplomi di nessun valore e contenuto.
Se si pensa che le istituzioni “non riconoscibili” (cioè, farlocche) censite negli elenchi confidenziali del Consiglio d’Europa superano le 900, è chiaro che una strategia di difesa contro i fornitori di “istruzione e formazione” a buon mercato (recupero anni scolastici, preparazione a esami universitari a prezzi salati ma con pessimi risultati) deve essere adottata sia sul piano internazionale, sia sul piano nazionale. Sul piano internazionale ci pensano sia l’Unione europea, con lo Spazio europeo della formazione universitaria, che riunisce 47 stati UE e non-UE e ci pensa appunto il Consiglio d’Europa, nato nel 1949 e che ha sede a Strasburgo. Uno dei capisaldi di questo sistema è che deve essere lo stato a verificare e controllare la qualità degli operatori, necessariamente riconoscendo una differenza tra il diploma acquistato per corrispondenza e quello rilasciato da un’istituzione controllata.
È comunque strano che mentre in ogni Paese dell’Unione europea esiste il principio del valore legale del titolo di studio e stretti controlli su chi attribuisce un titolo, qui da noi si confonda tale elemento con la lotta contro gli ordini professionali, le situazioni di privilegio, le caste. Proporre l’abolizione di un ordine professionale in nome della liberalizzazione dei servizi non significa abolire il valore legale del titolo di studio che abilita a quella determinata professione; e di certo rendendo libero il mercato dei titoli di studio non si aumenta la qualità dei professionisti. Chi di noi si farebbe curare da un medico preparato, tanto per fare un esempio, da un’università per corrispondenza?
Valutare il sistema universitario, accreditarlo per la formazione, cercare di migliorarlo non c’entra quindi proprio nulla con l’abolizione del valore legale del titolo di studio che potrebbe essere attuata solo se vi fosse al suo posto un sistema serio di accreditamento e di controllo della qualità delle istituzioni, pubbliche e private, che rilasciano i diplomi.
Brandire l’abolizione del valore legale del titolo di studio come un’arma assoluta, che migliora per incanto il sistema formativo italiano è, prima che infantile, stupido. Lo può dire chi non sa nulla del sistema universitario integrato a livello europeo e del lavoro che, dal 1973 a oggi è stato fatto per rendere omogeneo e confrontabile il vasto panorama dell’offerta formativa nell’Unione.
Cerchiamo, una volta tanto, di essere – oltre che europeisti – anche intelligenti.
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