La richiesta di convocare in modo carbonaro il Senato da parte di 19 dei suoi membri costituisce il punto di basso della gestione della scrittura del nuovo Statuto poiché è la chiara rappresentazione sia dell’incapacità di dialogare con i docenti, gli studenti e i lavoratori dell’Ateneo sia delle ragioni tutt’altro che nascoste che muovono (purtroppo per molti senza neanche averne piena consapevolezza, o paradossalmente questo verrebbe da augurarsi) le decisioni della Commissione statuto, del Senato stesso e del Consiglio d’amministrazione.
Un’intera classe dirigente del nostro ateneo, totalmente screditata dall’incapacità di gestire la transizione, mette le proprie pedine per essere rieletta o per fare carriera nell’ateneo o in consigli di amministrazione più remunerativi. Per fare questo ha bisogno di uno statuto che gli garantisca continuità e mani libere. Nessuno disturbi il manovratore: e invece in questi mesi ricercatori, studenti e tecnici amministrativi hanno continuamente disturbato, con la trasparenza di chi chiede semplicemente il rispetto delle regole e una partecipazione democratica. Rispondere avrebbe significato mettere in forse il proprio tornaconto – un posto in Cda o in Senato, la garanzia che la propria area sarebbe stata conservata e protetta, la sedia di direttore di dipartimento o quella di rettore – e anche le persone migliori, che sono partire con le migliori intenzioni perché mosse da un sincero spirito di rinnovamento, alla fine hanno ancora una volta scelto di adeguarsi, di sottomettersi alla volontà di un piccolo gruppo di baroni i cui comportamenti ricordano più la visione borbonica del potere anziché quella di una classe dirigente di una moderna università.
Lo stesso rettore non ha saputo governare i passaggi essenziali di questo processo e anche nella sua ultima decisione (convocare un senato sotto la pressione di una parte del senato) non ha avuto la capacità di cogliere la gravità di una proposta che avrebbe voluto che il principale organo rappresentativo dell’Ateneo venisse convocato magari in una grande sala offerta da una fondazione bancaria oppure con le forze dell’ordine pronte a impedire la protesta.
Lo spettacolo che viene offerto in questi giorni è purtroppo la dimostrazione che tutti i dubbi e perplessità che gran parte dell’Ateneo aveva risultano assolutamente fondati. E cioè di essere stati governati fino a oggi da una classe dirigente assai attenta ai propri interessi e poco a quelli del futuro dell’università così che il luogo comune di un rapporto prono di fronte ai “poteri forti” dovrebbe far sorridere e invece si invera nelle decisioni che vengono prese. Di aver assistito a lavori per la definizione dello statuto che avremmo voluto fossero indirizzati da una logica di ascolto e di discussione, mentre invece sono stati la messa in scena di decisioni prese in altre stanze. Di aver capito che la logica feudale che ci governa non è solo il risultato di cattive leggi ma di persone che credono in esse, vi si rispecchiano e vorrebbero conservarle. Di essere usciti da questa esperienza con la convinzione che l’università ha ancora più bisogno di coloro che la difendono perché credono al valore della ricerca, della formazione, di un bene pubblico e non perché riflettono interessi corporativi ed economici.
Il paese vive da tempo una crisi di legittimità della politica che nasce dall’affermarsi di un’idea di cittadinanza passiva, di becero individualismo e di consumo come unica fonte di identità collettiva. E’ una logica che non può essere superata da un altrettanto rozzo atteggiamento di condanna delle “caste”, di rifiuto della politica, di abbandono di ogni idealità. Al contrario: la vicenda dell’università italiana dimostra che all’inettitudine della classe dirigente e alla sua difesa dei singoli interessi non si può che rispondere che con uno slancio etico, ricordando sempre che a un fallimento di un’esperienza di governo segue prima o poi un ritorno alle elezioni, la richiesta di un consenso, la costruzione di progetti politici. Lo ricordino i candidati rettori, i candidati alla presidenza delle scuole, i candidati al ruolo di direttore di dipartimento, i candidati al senato (quelli del cda no perché se li sceglierà il rettore).
Coloro che hanno approvato gioiosamente questo statuto, coloro che non hanno voluto discutere e hanno dichiarato nei fatti che una ventina di persone hanno il diritto di decidere per tutti (insomma, “lasciateci lavorare”), che hanno dichiarato pubblicamente e privatamente che loro, no, mai vorranno candidarsi alla poltrona di rettore, di membro del cda o del senato, li prendiamo in parola. E quell’impegno lo ricorderemo a tutti gli elettori del nostro ateneo. Perché, il nostro compito non è quello di gestire il potere ma, come nella migliore tradizione del giornalismo, quello di essere “il cane da guardia della democrazia”.
29 settembre 2011
Rete 29 Aprile – Torino