Francesca Coin

Invio il testo con cui sono intervenuta alla giornata del 150mo dell’Unità d’Italia del PD. poichè non è mia abitudine intervenire in contesti istituzionali, piuttosto il contrario, ho riflettuto a lungo sul linguaggio da utilizzare per parlare alle istituzioni dal punto di vista dei movimenti. Ne è uscito un intervento dissonante e in parte intimo che riporto di seguito. grazie a Massi per il feedback e il lavoro instancabile.

Ci tengo a ringraziare anzitutto per questo invito. E’ un onore e un’opportunità essere qui, dunque cercherò di farne buon uso. Sono qui per parlare dell’università e dell’istruzione, con i miei colleghi della rete 29 aprile, come una delle migliaia di persone che questo autunno hanno cercato di difendere in tutti i modi il diritto allo studio e alla libertà di ricerca. Devo dire che mentre ragionavo su questo intervento la notizia del sequestro e dell’uccisione di Vittorio Arrigoni ha sconvolto me come tanti altri, dunque vorrei iniziare ricordandolo, e ricordando una frase di Martin Luter King che lui ripeteva sempre. Diceva: “non temo le urla dei violenti ma il silenzio degli onesti”. È a partire da quest’onestà che vorrei parlare.

Viviamo in tempi bui. E quest’autunno come avviene quando ci sono le alluvioni siamo saliti sui tetti, i nostri colleghi attori e lavoratori della cultura hanno riacceso le luci dei teatri, gli studenti hanno riaperto i monumenti abbiamo cercato di dire a tutti che c’era un pericolo. Per la mia categoria di ricercatori era strano trovarsi a dormire insieme sui tetti, nelle tende. Forse ne avete conosciuto qualcuno dai media, ma i miei colleghi sono generalmente persone con riconoscimenti, pubblicazioni, premi internazionali. Persone che ci si aspetta di incontrare più alle conferenze, in biblioteca o in laboratorio, che in gelide tende sui tetti d’inverno. In questa italia avvilita, umiliata da logiche di potere spesso grottesche è stato stupefacente vedere due generazioni animate esclusivamente dal desiderio di conoscenza e di diritto al sapere. È una testimonianza etica non scontata e da questa vorrei partire.

Vorrei parlarvi dell’università italiana. Noi ricercatori abbiamo un piccolo osservatorio, guardiamo il mondo attraverso i nostri studenti e le nostre ricerche. Ciò che vorrei fare oggi è dirvi quello vediamo, perchè in questa giornata vorrei porre all’attenzione di tutti un problema: la riforma universitaria è stata uno dei fallimenti più grandi della storia italiana. È stata un fallimento in tutti i sensi: per la logica che sottende, per le modalità con cui è diventata legge, per i suoi contenuti, per i suoi scopi. È un fallimento per noi ricercatori, per gli studenti, per i nostri colleghi precari,  per la società tutta. È un fallimento che mostra un disegno che parimenti tutti conosciamo, regressivo per l’italia, per la sua economia, per i giovani, per la dignità, per il futuro. Ma non voglio soffermarmi su questo, perchè il tempo dell’indignazione è finito. Urge cambiare rotta.

Dunque vorrei ragionare per un istante sugli effetti di questa legge, e per farlo vorrei partire da ciò che l’università era quando è nata, perchè in questa giornata sarà utile ricordare che l’Università è nata molti secoli fa esattamente in Italia, ed allora era un luogo in cui la ricerca era indipendente da ogni altro potere. La medicina era definita una magia naturale, l’aritmetica e l’astronomia erano considerate un arte, il pensiero produceva nomi come Dante Petrarca o Copernico, ed il sapere era considerato la guida, il lume della società e della politica. L’evoluzione della società seguiva l’evoluzione del pensiero.

Oggi viviamo in un mondo diverso. La filosofia, il pensiero e le arti sono superflue. Il pensiero non guida l’evoluzione umana, piuttosto l’involuzione ha asservito il pensiero. Entro dunque nei dettagli della legge cercando di analizzarla. Noi tutti abbiamo studiato per diversi mesi questa riforma. Ci è stato detto che la logica che guidava la riforma era la necessità di rendere sinergici l’università e il mercato, così da eliminare quei percorsi formativi che il mercato non assorbe. Questo è stato fatto in molti modi, attraverso l’inserimento di un CdA con potere vincolante sui corsi di laurea da tagliare e da tenere, sui cosiddetti piani di sviluppo dell’univesrità. Questa strategia di per sé non scontata si basa su un’idea di sviluppo tuttavia diversa da quiello odierna: un’idea che poteva funzionare quando il mercato sembrava in espansione, oppure in quei paesi in cui le grandi imprese investono nell’univesrità. Ma tradizionalmente la piccola-medio impresa italiana non ha l’abitudine ad investire nella ricerca: la ricerca è un rischio, tutti sappiamo che l’innovazione richiede anni di ricerca e spesso molti tentativi a vuoto. Dunque l’italia generalmente non investe in ricerca: importa tecnologia e brevetti, e lascia andare coloro che li producono.

Il modello è problematico per un’altra ragione, perchè oggi il mercato non è più in espansione: è in declino. La disoccupazione giovanile è al 30%, la precarietà è garantita per l’85% dei contratti di lavoro ed il mercato è saturo. Oggi non servono laureati, servono lavoratori manuali, come ha detto Sacconi, e non servono molto nemmeno quelli. Dunque la sincronia tra università e mercato non va nell’ottica di una maggior occupazione, ma di una minor formazione. Così l’università è stata sottoposta ad un processo di smantellamento.

Vorrei riprendere alcuni aspetti di questa legge. Questa riforma è stata votata sulla base di slogan noti e discutibili, che si dipartivano dall’ipotetico stato pessimo dell’università italiana. Ma i dati che abbiamo più volte analizzato ci dicono una cosa diversa. Nonostante tutti i suoi difetti e i bassi finanziamenti l’accademia italiana si caratterizza per una produzione scientifica e didattica tra le migliori al mondo. De Nicolao ha citato più volte il rapporto del 2010 dell’OCSE sull’istruzione, e ai dati dell’agenzia di ranking internazionale SCImago Research Group, e secondo questi dati l’Italia si colloca all’ottavo posto nella graduatoria mondiale della ricerca scientifica, e in alcuni settori scientifici per nulla secondari si classifica quinta o sesta. Ciò significa che anche in un regime di sottofinanziamento le decine di migliaia di ricercatori, dottorandi laureandi e ricercatori precari che lavorano nell’ombra hanno fatto un lavoro straordinario, che all’estero tutti riconoscono, ma non in l’Italia.

Vorrei guardare un attimo a chi sono questi ricercatori, quelli riconosciuti come tali oppure quelli mai regolarizzati come ricercatori, i cosiddetti precari, in quanto meritano di essere conosciuti non solo per il loro curriculum, ma per la loro determinazione, la loro sensibilità etica. Sui tetti quest’inverno c’era certamente l’intelligenza più brillante delle giovani generazioni italiani: matematici pluripremiati, medici, astronomi, chimici, fisici geografi, linguisti storici e biologi. Di recente Presa Diretta ha fatto un buon lavoro nel mostrare le personalità di chi ha protestato, in quanto tra le righe ha detto che ciò che lega queste persone al loro lavoro è solamente l’idealismo, l’etica, la devozione. Diventa piano piano evidente la nostra frustrazione, perchè questa parte della ricerca italiana oggi è scomoda ed è fonte di imbarazzo, non solo probabilmetne perchè è cresciuta oltre le possibilità del mercato di assorbirla, ma perchè è cresciuta anche oltre l’etica della maggioranza di governo.

Quando la Legge Gelmini entrerà a regime tra due o tre anni molte di queste persone saranno perdute. Già oggi è in atto un’emorraggia che vedrà l’estromissione di borsisti co.co.co assegnisti di ricerca e dottorandi. L’effetto congiunto della riduzione al 50% del personale della Pubblica Amministrazione, della Legge Gelmini, della Legge di Stabilità e della riduzione del FFO dell’Università ha in pratica bloccato gli atenei. La metà degli atenei pubblici è sull’orlo del collasso finanziario, e la campagna stampa sui cosiddetti sprechi, che non necessariamente è falsa, spesso trascura comunque che l’orlo del collasso finanziario non deriva dall’aver speso troppo o male, ma dal fatto che hanno tagliato i fondi.

Nei prossimi cinque anni i pensionamenti porteranno fuori dal sistema universitario il 50% degli ordinari e il 25% degli associati e ricercatori. Dati i tagli al FFO la grandissima parte non sarà reintegrata. Nel contempo non è certo che vi sia spazio per quei 50 mila ricercatori (o più) che sino ad oggi hanno lavorato nell’ombra. Per loro al momento è tutto bloccato. Le dimissioni volontarie dei ricercatori a tempo indeterminato sono raddoppiate negli ultimi cinque anni, e gli atenei stanno vivendo un processo di svuotamento di persone, beni patrimoniali messi all’asta per ragioni di quadratura di bilancio e fondi librari. La differenza tra le biblioteche italiane ed estere è imbarazzante, come la tecnologia o la situazione nei laboratori per cui i colleghi devono autonomamente provvedere ad attrezzature o le lampadine. Come è stato scritto qualche tempo fa, questi non sono risparmi, questa è una paralisi.

Questo si vede dalle piccole cose. Porto un esempio banale, ma dimostrativo, perchè mentre a volte i docenti in pensione rientrano dopo la pensione nell’insegnamento, ci sono sempre più regolamenti d’Ateneo che pongono limiti d’età nei concorsi e negli assegni di ricerca. Questa sembra una cosa piccola, ma è significativa perchè ci sono limiti di età verso il basso, ma non verso l’alto, applicando così un processo di selezione per cui coloro che da anni lavorano nelle università vengono tagliati fuori, spesso quando già sono studiosi maturi e persone difficilmente reinseribili nel mercato, se non a patto di rinnegare tutto ciò che sono, che sanno e che hanno fatto.

Vengo per ultimo agli studenti, last but not least come si dice. “L’aumento delle tasse è una extrema ratio che non vogliamo prendere in considerazione”, ha ripetuto diverse volte il ministro, al contrario in molti atenei le tasse sono già aumentate. Molti studenti si trovano a frequentare corsi di laurea presso dipartimenti in corso di smantellamento, con programmi che cambiano e corsi che non si tengono più. La riduzione dei fondi per le borse di studio è stata poi un’operazione drammatica, quasi dispregiativa dato l’ammontare complessivo già estremamente basso dei finanziamenti. Ora, con il taglio dei fondi per le borse di studio del 90-95%, il diritto allo studio viene messo in discussione per tutti quei giovani “meritevoli ed anche privi di mezzi” di cui parla la costituzione. La sostituzione delle borse con prestiti d’onore, inoltre, apre a situazioni pericolose. Dovremmo qui ricordare l’esperienza di paesi come il Giappone e gli Stati Uniti, ove sicuramente le borse di studio e i finanziamenti alla ricerca sono molto alti, ed ove tuttavia da tempo esistono casi di cosiddetta “bancarotta studentesca”, una contraddizione in termini se non fosse una beffa crudele, che nell’esternalizzre i costi dell’ istruzione agli studenti in un momento di saturazione del mercato li rende indebitati fino al collo ed incapaci di ripagare il debito prima ancora di avere mai trovato un lavoro.

Insomma, questa legge ci preoccupa. Fortemente. Svuota le università, precarizza la docenza, indebita gli studenti. E questi sono solo gli effetti interni agli atenei, che non considerano l’impatto sociale di tutto questo. L’impatto sociale che deriva dall’interruzione nella continuità educativa e nell’accesso all’istruzione mostrerà i suoi effetti dopo lungo tempo, sono effetti che si vedono quando è già troppo tardi. Questo è un tempo che non possiamo attendere.

Lo smantellamento dell’Università è uno dei simboli delle modalità al ribasso con le quali l’italia sta affrontando i suoi problemi. Un po’ come chi risolve il problema dell’obesità allentando la cintura, così ultimamente si risolvono le crisi cambiando le regole, si risolve il problema della disoccupazione dei laureati tagliando il numero dei laureati. In un momento così importante in cui celebriamo di fatto l’amicizia tra Nord e Sud, i 150 anni passati insieme, viene dunque da porre la domanda: e i 150 anni a venire? È una domanda che dobbiamo porre perchè oggi in Italia c’è un rischio nuovo, abbiamo due generazioni in Italia a un passo dalla marginalità sociale e dalla fuga. Anni fa un vecchio film americano narrava di due immigrati italiani in California, e ricordava che loro si definivano orgogliosamente: “i figli dei figli dei figli dei figli dei figli di Michelangelo e Leonardo”. Oggi chi lascia il paese se ne va sbattendo la porta.

Qualche giorno va si è parlato di un Reality Show che offriva agli insegnanti precari della scuola un premio potenziale di dieci anni di stipendio. Lo cito non per intento polemico ma per dire che la svalorizzazione del sapere toglie dignità alla società intera. C’è bisogno di un cambio di paradigma, perchè il sapere non dovrebbe essere uno strumento in balia dall’economia, della politica o delle tv commerciali, semmai il sapere dovrebbe guidare la politica, l’economia e le tv commerciali. È necessario un cambio di paradigma capace di elaborare paradigmi di sviluppo sostenibile, per gestire l’onnipotenza e la fragilità di quest’epoca in modo responsabile, non grossolano.

Thoreau diceva che chi ammazza il tempo ferisce l’eternità, si tratta dunque di riprendere in mano la storia. Si tratta di prendere responsabilità per quello che è stato fatto e di cambiarlo secondo tre criteri. Primo, rifinanziando l’Università, questo è il primo punto ed imprescindibile affinchè non si vedano a breve atenei chiudere o contendersi litigiosamente le facoltà, come avviene in questi giorni a Padova e Verona in uno spettacolo triste da guardare. Secondo, valorizzando le persone, a partire dagli studenti i dottorandi e i ricercatori precari, perchè semplicemente è già troppo tardi. Terzo, riconoscendogli una libertà di ricerca autonoma rispetto a logiche autoritarie e libera da logiche aziendali, e da Consigli di Amministrazione che non sono qualificati per giudicare la molteplicità di saperi indispensabili all’accademia. Un CdA semplicemente non può dire a fisici nucleari che cosa devono fare e che cosa no, non a causa di un preconcetto ma semplicemente perchè non ne hanno le competenze. Le competenze di un CdA sono di bilancio, e a quella funzione dovrebbero limitarsi con potere al più consultivo ma non vincolante.

Fatte queste cose saremmo a buon punto, perchè avremmo riconosciuto al sapere un ruolo di guida nella società, esattamente come lo aveva quando l’Italia fioriva di astronomi, poeti e letterati. E avremmo riconosciuto le nuove generazioni finalmente per quello che sono, ovvero la cosa più preziosa che rimane in questo paese.