Il ministro Gelmini non sa di cosa parla (o, forse, lo sa troppo bene)
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Lascia sorpresi il contenuto delle affermazioni rilasciate dal ministro Maria Stella Gelmini alla trasmissione “Mattino Cinque”. Secondo il ministro qualche università potrebbe chiudere come conseguenza del dissesto finanziario, «Non a caso la riforma prevede la fusione piuttosto che la federazione di atenei diversi come strumento per favorire una riprogrammazione dell’offerta formativa», ha proseguito il ministro.
La prima risposta a queste affermazioni è che è proprio la politica dissennata di tagli al fondo di finanziamento ordinario, avviata nel giugno 2008, a stare alla base del dissesto finanziario degli atenei. Parlando di dissesto come se esso fosse caduto dal cielo e non invece provocato da lei e dalla sua miope politica, il ministro trasforma quella che è una conseguenza (il dissesto) della sua azione in un evento causato da cattive gestioni locali.
Abbiamo più volte sottolineato come alla base della cattiva gestione di alcuni atenei vi siano precise responsabilità
politiche e gestionali contro le quali il ministro non ha mosso un dito. Questo governo, del resto, mostra di non considerare per nulla il principio della accountability quando si tratta di risorse pubbliche, prima tagliando in maniera drastica i fondi alle università e poi lanciando allarmi conditi con lacrime di coccodrillo.
Vi sono molti problemi nell’università italiana, legati soprattutto alla presenza in molti atenei di centri di potere in gran parte responsabili delle passate gestioni. Ci dica, On. Gelmini, cosa fa la sua riforma per colpire questi centri di potere? Forse pensa di colpirli accentrando il controllo degli atenei nelle mani di rettori e consigli di amministrazione designati dall’alto? Oppure pensa che ridimensionare la partecipazione delle componenti universitarie negli organi di governo sia una garanzia per gestioni più trasparenti ed efficienti?
Il ministro ha anche parlato del peccato originale delle università italiane, l’autoreferenzialità, indicando la strada nella costituzione di centri di eccellenza legati al territorio e al mondo produttivo. Ovviamente, in questo disegno, i centri di eccellenza potranno essere solo due o tre, e il resto? università impoverite, mega-licei che dovranno colmare i ritardi e i limiti di una scuola pubblica colpita ancora più duramente? Colpisce poi il riferimento, molto americano, al legame tra università e mondo produttivo. Esiste già, ministro, ci creda, solo che quello che si fa nel Massachusetts o in West Virginia, non lo si fa in Basilicata o in Piemonte: in Italia l’apporto dell’imprenditoria privata alle università pubbliche è risibile, e non è colpa dell’autoreferenzialità. Forse, ci dicono, dipende dal fatto che il tessuto produttivo italiano è diverso da quello statunitense, e il mito di una università come motore di idee per i grandi trust industriali vale solo se parli inglese e sei nato sotto la bandiera a stelle e strisce.
Quello che serve all’università italiana, che sforna ottimi ricercatori e studiosi, è un ministro meno prigioniero di vieti schemi ideologici, che parli europeo e abbia una visione moderna dell’università che, dagli anni Sessanta in poi, possa spiacere o piacere, è e deve restare una università di massa. Con eccellenze, certo; con università inevitabilmente migliori e peggiori, ma certo tutte correttamente finanziate e considerate una risorsa strategica per il futuro e per la crescita del Paese.
Le sue parole d’ordine e i suoi proclami non ci bastano ministro. Le sue esaltazioni del merito e della premialità, dell’aziendalismo e dell’efficientismo nascondono a malapena un disegno di smantellamento dell’università pubblica per restituire al paese una gioventù più ignorante, meno critica e meno dotata degli strumenti per non credere alle fandonie che ormai, quotidianamente, ci sommergono. L’«impostazione falsamente egualitaria del Sessantotto» non è solo un’affermazione senza senso, è la negazione dei valori che stanno iscritti nella nostra Costituzione. L’Università deve essere pubblica, libera e aperta, non privata, prigioniera di interessi e chiusa.
La Rete 29 Aprile